Numerose risultano le società che annoverano propri dipendenti tra i membri degli organi amministrativi. In generale il cumulo dei rapporti viene attuato allo scopo di consentire al consigliere di amministrazione di fruire della stabilità del rapporto e del trattamento previdenziale assicurato ai lavoratori subordinati e connesso per legge alla qualifica.
E' interessante offrire sin da subito un quadro tassonomico, se pur parziale, delle fattispecie nelle quali si cumulano in capo ad uno stesso soggetto la carica di amministratore e il ruolo di dipendente[1].
Si pensi ad una S.p.A. di medie dimensioni che ha, quale direttore amministrativo, un dirigente da diversi anni in azienda che gode della fiducia degli azionisti. Assai di frequente, in ipotesi del genere, accadrà che il direttore amministrativo venga chiamato a far parte del consiglio di amministrazione con responsabilità tipiche della funzione amministrativa.
Caso diametralmente opposto, quello di una piccola S.r.l. i cui soci prestano la propria opera nella società essendone al contempo amministratori, con poteri disgiunti e ripartizione sommaria dei compiti non descritta nei verbali assembleari.
Un altro caso ancora può essere quello – frequente nelle multinazionali – della società figlia italiana facente parte di un gruppo internazionale ove il country manager viene nominato amministratore unico della stessa, con tutti i poteri di ordinaria e straordinaria amministrazione nei verbali di nomina, ma vincoli all'esercizio di tali poteri derivanti dalle policy di gruppo.
Giova a questo punto ricordare che la Suprema Corte con sentenza n. 5944 del 25 maggio 1991 ha precisato che «la qualità di amministratore di una società di capitali è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della medesima, ove sia accertato in concreto lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, con l'assoggettamento ad effettivo potere di supremazia gerarchica e disciplinare».
La stessa Corte di Cassazione, Sez. lav., con sentenza del 13 giugno 1996, n. 5418 ha in seguito precisato che «per la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato fra un membro del Consiglio di Amministrazione di una società di capitali e la società stessa è necessario che colui che intende far valere tale tipo di rapporto fornisca la prova della sussistenza del vincolo di subordinazione e cioè l'assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell'organo di amministrazione della società nel suo complesso, nonostante la suddetta qualità di membro del consiglio di amministrazione».
In sostanza, perché sia configurabile un rapporto di lavoro subordinato tra la società e il suo amministratore occorre che quest'ultimo non detenga tutti i poteri di amministrazione e che la volontà della società possa essere validamente determinata da un organo in grado di esprimere una volontà imprenditoriale distinta da quella dell'amministratore. Ciò porta innanzitutto ad escludere la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato in capo all'amministratore unico che, nella società di capitali, concentra in capo a sé tutti i poteri di gestione della società. Il cumulo nella stessa persona dei poteri di rappresentanza dell'ente sociale, di direzione, di controllo e di disciplina, rende impossibile quella diversificazione delle parti del rapporto di lavoro e delle relative distinte attribuzioni, necessaria perché sia riscontrabile l'essenziale e indefettibile elemento della subordinazione.
La formale cumulabilità delle funzioni di lavoratore dipendente ed amministratore presso la medesima impresa non ha esonerato la Corte di Cassazione (sentenza 13018/2011) dal sottolineare il costante rischio in capo al soggetto interessato di subire la contestazione dell'effettiva sussistenza del vincolo di subordinazione[2].
Il sopravvenuto accertamento dell'insussistenza del vincolo non inficia naturalmente la validità degli atti compiuti dal medesimo soggetto nell'esercizio delle proprie funzioni di amministratore: i relativi effetti continueranno a prodursi pienamente nei confronti dei terzi, ad eccezione di quelli eventualmente assunti in "conflitto d'interessi".
Tale situazione comporterà però effetti di natura fiscale e previdenziale.
Vasta risulta la casistica delle problematiche correlate al disconoscimento da parte dell'I.N.P.S. del rapporto di lavoro dipendente, in casi in cui non vi sia una regolare costituzione del rapporto subordinato e solitamente dirigenziale, con conseguente annullamento della contribuzione ovvero rifiuto di eseguire la prestazione previdenziale.
Secondo l'Istituto di cui sopra, la valutazione in merito al riconoscimento o meno del rapporto subordinato deve compiersi caso per caso, verificando la presenza di tutti i requisiti necessari, propri del rapporto di lavoro sulla base di elementi quali:
- la percezione di una retribuzione di misura predeterminata il cui pagamento avvenga mediante uno dei sistemi previsti dalle norme in vigore per i lavoratori subordinati, retribuzione soggetta al regime fiscale applicato alla generalità dei lavoratori dipendenti;
- l'esistenza certa ed effettiva di controllo e di direzione da parte di organi sulla attività lavorativa del socio dipendente;
- le origini del rapporto di amministrazione in capo all'interessato, anche in relazione ai poteri attribuitigli dallo statuto o dall'atto costitutivo, o dagli altri organi sociali che lo abbiano chiamato in carica.
Trattasi di criteri in linea di massima analoghi a quelli adottati dalla giurisprudenza summenzionata, che ammettono la configurabilità del cumulo degli incarichi in presenza di una subordinazione dell'amministratore, certa ed effettiva, ad un potere decisionale e disciplinare esterno.
L'INPS nella propria circolare n. 179 dell'8 agosto 1998, titolata per l'appunto "Accertamenti e valutazione nella sussistenza del rapporto di lavoro subordinato", analizzando numerose fattispecie in merito all'argomento in trattazione, così si esprime: «(...) diversa dalle precedenti ipotesi di amministrazione è, infine, il caso di soggetto che rivesta una carica amministrativa tale da rendere evanescente la posizione di subordinazione rispetto agli altri. Questo è il caso del Presidente, dell'Amministratore Unico e del consigliere delegato. Quando questi, infatti, esprimono da soli la volontà propria dell'ente, come anche i poteri di controllo, di comando e di disciplina, in veste di lavoratori, verrebbero ad essere subordinati di se stessi, cosa che non è giuridicamente possibile. Per essi pertanto, in linea di massima, è da escludere ogni riconoscibilità di rapporto di lavoro subordinato e della conseguente assoggettabilità agli obblighi assicurativi».
Dal punto di vista previdenziale dunque, l'INPS riconosce all'amministratore lavoratore dipendente, il cui rapporto complessivo non risponde ai requisiti succitati, il diritto al rimborso dei contributi versati, ma non alla percezione del trattamento pensionistico.
[1] La svolta giurisprudenziale nella direzione della negazione formale e nominalistica dell'ammissibilità del cumulo tra incarico di amministratore e qualità di dipendente derivante dal concetto di immedesimazione organica viene tradizionalmente fatta coincidere con la sentenza della Cassazione n.845 del 24 marzo 1956, ove si legge per la prima volta che la persona investita della funzione di amministratore può «stabilire e continuare anche con la società stessa i più svariati rapporti giuridici, compreso quello di prestazione d'opera subordinata, in ogni sua possibile configurazione materiale o intellettuale». [2] Ciò che la giurisprudenza ritiene imprescindibile per riconoscere la titolarità del rapporto di lavoro da parte dell'amministratore di società è «l'elemento tipico qualificante della subordinazione», inteso come «assoggettamento ad effettivo potere di supremazia gerarchica e disciplinare». Così Cass. 14 maggio 1998 n. 984.The Firm offers complete assistance in the field of industrial investments, both to public entities facing extraordinary corporate transactions, and...